fbpx Skip to main content

Isola contesa e distrutta e, come la mitica Fenice, rinata ogni volta dalle sue ceneri, Pantelleria è, in fondo, un gioco di prospettiva, di angolazioni, di riflessi. Il suo porsi agli occhi tanto crudo e amaro, quanto magico, tratteggia perfettamente uno spaccato di vita, di mentalità, di vocazione. Pantelleria è, ancora oggi, un luogo estremo e misterioso dove il respiro primitivo della natura e le vertigini della luce infondono un senso di assoluto, che regala all’essere umano l’emozione di trovarsi in uno dei pochi angoli della terra ancora violento, unico, indimenticabile.

La sua spoglia asprezza non è affatto la metafora di una semplicità; anzi, traduce l’esatto contrario: è la cifra del molteplice delle sue voci profonde che iniziano dai venti e terminano là dove non si può mai trovare una fine: nei suoi mari arcaici e sempre segreti. Per questo, chiunque vi sia approdato ha scritto qualcosa di Pantelleria: lettere, diari di viaggio, poesie, canzoni, romanzi, memorie e storie; dunque, anche García Márquez non poteva non rimanerne incantato e ispirato:

“Per un anno intero avevamo atteso con ansia quell’estate libera sull’isola di Pantelleria. Ricordo ancora come un sogno la pianura solare di rocce vulcaniche, il mare eterno, la casa dipinta di calce viva fino ai gradini di ingresso”.

L’isola che ispirò uno dei suoi racconti

Gabo scrisse così di un’estate di sole tenace “che s’infilava a coltellate”, di “mare liscio e diafano”, di rocce vulcaniche e “arbusti di capperi”. Era il luglio del 1969, due anni dopo l’uscita di “Cent’anni di solitudine” e ben tredici prima del riconoscimento del Premio Nobel per la letteratura. L’isola nera, con la sua “pianura solare di rocce”, col suo “sole fermo nel cielo” e col suo “mare eterno” colpì talmente tanto l’immaginario di Márquez che qualche anno dopo, nel 1976, Pantelleria e le persone conosciute durante quella vacanza divennero sfondo e protagonisti de “L’estate felice della signora Forbes”, uno dei “Dodici racconti raminghi” pubblicati nel ´92.

Dal racconto emerge un affresco letterario che fa tutt’uno con le forme, i percorsi, i luoghi che hanno acceso la sua fantasia a Pantelleria. E così i suoi Caraibi, la sua magica Macondo, si trasfigurarono nel paesaggio lunare di questo estremo lembo d’Europa, mentre la memoria delle sue matriarche centenarie e delle sue Remedios regala corpo e sembianze a una cuoca affabulatrice in grado di compiere vere magie.

I sapori di Pantelleria

Per lo scrittore colombiano furono giorni di abbuffate di pesce, corredate da immense insalate pantesche e busiate col pesto tipico dell’isola, che esalta il sapore dei pomodori dolcissimi cotti dal sole e dei capperi migliori al mondo. Giorni allietati dal passito e dai baci panteschi, piccoli dolci composti da due frittelle unite da ricotta fresca. Giorni di scogli conquistati a fatica, di grandi nuotate e di pesca subacquea.

Márquez stava a Punta Tre Pietre, sul tratto di costa sud occidentale dell’isola, vicino al Porto di Scauri, una zona di litorale non certo agevole e raggiungibile attraverso un percorso a piedi che si inerpica in mezzo le rocce. Se è vero che qui i massi non sono ideali per sdraiarsi (è una distesa di rocce laviche), è anche vero che qui il mare assume colori meravigliosi ed è possibile raggiungere a nuoto numerose grotte. Il fondale è infatti fin da subito molto profondo, il luogo ideale per gli appassionati di immersioni che si trovano spesso a nuotare in mezzo a branchi di ricciole, ed essere avvicinati da qualche murena.

Lo sbarco sulla luna, nel 1969

Fu a Punta Tre Pietre che Márquez assistette, da spettatore televisivo, allo sbarco sulla luna di Neil Armstrong e compagni: “Ho visto la Luna dalla Luna” ebbe a dire. Chiaro che un luogo così lontano, perduto, estremo e alieno non poteva non diventare amico dello scrittore di “Cent’anni di solitudine”: per questo, il Premio Nobel ci restituisce un pianeta remoto sospeso nel mito, abitato da una figura che ha il fascino della sapienza popolare, capace di fare ascoltare il viaggio lamentoso dei sospiri che soffiavano da Tunisi, e che cucina con una gioia intensa e arcigna che solo le donne pantesche sanno regalare: arte fatta di cultura gastronomica, sapori intensi, tradizioni secolari e orgogliose.

Come accade sempre con le esperienza estreme, Pantelleria la puoi amare o odiare per gli stessi motivi: la sua durezza, la sua sincerità, i suoi scogli, il suo vento, il suo sole a picco. Una area senza confini visibili dove l’orrido e il sublime convivono, luogo dei lenti orologi e dei rapidi tramonti. Un posto da cui si vorrebbe fuggire o non partire più.

“L’unica cosa che si sente è il mare”, scrisse Gabriel García Márquez sulle ali di quella suggestione colorata d’azzurro che dovette restargli dentro a lungo. Ma il silenzio e il mare sono solo l’inizio: di un gioco di prospettiva, di angolazioni, di riflessi che vi aprirà la mente al sogno più potente e indelebile, quasi lisergico, che potrete mai sperimentare.

Bisogna andare, venire, ritornare, a Pantelleria. Perché, come nel caso di Gabo, se non si ritorna si è condannati a ricordarla per sempre.

Vuoi leggere di un altro autore che si appassionò a un’isola del nostro Paese? Allora questo pezzo su Dylan Thomas all’Isola d’Elba fa per te.

Foto in evidenza di Ante Hamersmit