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Se, nel Decamerone, Boccaccio cita una sola volta l’Abruzzo riferendosi a esso come regione remota – “Gli è più lontano che Abruzzi” – seguendo invece le gesta delle due più importanti penne nate in questa terra, D’Annunzio e Flaiano, è possibile scoprire il vero cuore di questa regione.

L’Abruzzo nelle pagine di Flaiano e D’Annunzio

Un cuore aspro, forse spesso ispido, ma sincero e memorabile. “Un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, il Gran Sasso e la Maiella, monumentali e libere come basiliche si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare” nelle parole di Ennio Flaiano; “Quella catena di promontori e di golfi lunati che è l’immagine d’un proseguimento di offerte, dove l’aria respirata delizia come un sorso d’elisir” nei versi di Gabriele d’Annunzio.

Non è solo questione di attaccamento campanilistico; come dice Flaiano, è questione di sangue:

“Mi domando anch’io che cosa ho conservato di abruzzese e debbo dire, ahimè, tutto. Cioè l’orgoglio di esserlo, che mi riviene in gola quando meno me lo aspetto, la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie; quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone, accettandole come sono, riconoscendo i loro difetti come miei, anzi nei loro difetti i miei”.

Gli abruzzesi, dunque, come gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?) descritti attraverso frammenti, brevi brani lapidari, incisivi, veri… eterni.

La cultura gastronomica abruzzese

In coerenza con questo, la cultura gastronomica abruzzese traduce lo spirito del popolo che la alimenta da secoli e millenni: in particolare, l’isolamento che per decenni ha caratterizzato la regione ha fatto sì che quest’ultima mantenesse un’arte culinaria viva e indipendente, abituata alla morigeratezza e a una frugalità mai doma.

D’Annunzio l’esteta del cibo

Non a caso, quindi, proprio dal suo essere abruzzese D’Annunzio aveva ereditato anche l’abitudine a un mangiare parco. Lo raccontano alcune lettere scritte al Vittoriale, il suo dorato esilio gardesano, tra cui quella del 1927 indirizzata a Francesco Paolo Michetti a cui scrive:

“Io abruzzese schietto, esporrò a te igienista antico la mia teoria del digiuno. Per esempio, mentre scrivo, sono digiuno da 38 ore, e solo alla mezzanotte prenderò un lieve pasto”.

E, ancora, le diverse testimonianze in cui il Vate confessa di preferire compagnie ridotte e di sentirsi solo, paradossalmente, soprattutto durante i banchetti più importanti. Ricordo e rimpianto che D’Annunzio cercava di lenire quasi centellinando i tipici dolci della sua terra tanto attesi, i fiadoni: “Prepara i fiatuni di Pasqua” raccomandò in due telegrammi, il 15 marzo 1928, alla governante che teneva in vita la casa di famiglia con la segreta speranza, o forse illusione, di poterli rimangiare proprio a Pescara.

Il rapporto di Gabriele d’Annunzio con il cibo in verità riprendeva molte delle liturgie che egli dedicava agli appetiti sessuali: era singolare, altalenante, denso di picchi umorali divisi tra pulsioni monastiche e pulsioni improvvise e impazienti. Per questo era devoto all’arte tra i fornelli di Albina, la cuoca da lui soprannominata Suor Intingola.

D’Annunzio e Suor Intingola

Amava chiederle pietanze vergando biglietti che erano poesie, declami, a volte suppliche che sapevano di infanzia, come ad esempio nel caso di una improvvisa voglia di cannelloni o dei molto più abruzzesi maccheroni alla chitarra, desideri da esaudire a ogni ora del giorno e della notte e ricompensate ogni volta con laute mance; in alcuni casi, soprattutto quando il Vate chiedeva la frittata, il suo piatto preferito, addirittura di duemila lire, una cifra davvero alta allora.

Delle uova in padella D’Annunzio andava così ghiotto da paragonarne gli effetti a quelli di una “estasi divina: “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale” ebbe a dire.

Migliaia di richieste messe su carta, racconta l’archivio del Vittoriale, all’interno del quale si possono scovare preghiere laiche ad Albina di preparare in fretta “il polpettone magistrale” per la Mariona, sua sodale nel pomeriggio appena trascorso sulle lenzuola di lino azzurro; e ancora frutta, soprattutto le mele, sia cotte che crude, che mangiava in gran quantità. Gli piacevano inoltre il riso, la carne alla griglia quasi cruda, il parrozzo e ogni sorta di pesci. Ma, soprattutto, non riusciva a resistere ai dolciumi: impazziva per le crostate, i marron glacé, il gelato, con cui cercava di lenire la nostalgia per il suo Abruzzo che negli anni si fece sempre più intensa, e che gli amici cercavano di lenire dalla terra natia con l’invio di bottiglie di liquore quali Cerasella, Mentuccia di San Silvestro e l’Aurum, quest’ultimo denominato proprio da D’Annunzio e al tempo prodotto vicino a uno dei luoghi che a Pescara celebrano il legame fra il poeta e la sua terra: la Pineta d’Avalos, nella parte meridionale della città, conosciuta oggi anche come Pineta Dannunziana.

Ma come, qualcuno potrà pensare, D’Annunzio non cita mai nei suoi messaggi ad Albina i mitici arrosticini, prodotto abruzzese entrato nell’immaginario collettivo di tutto il mondo in compagnia dei confetti di Sulmona, lo zafferano dell’Aquila e il prestigioso vino Montepulciano d’Abruzzo?

Il fatto è che le tradizioni narrano che gli arrosticini, almeno come li conosciamo oggi, furono inventati solo negli anni ’30 da due pastori del Voltigno che tagliarono carne di pecora vecchia in piccoli pezzi per non sprecare cibo, prendendone anche dalle zone vicine alle ossa dell’animale. I piccoli pezzettini di carne sarebbero diventati spiedini venendo inseriti su bastoncini di legno di vingh, una pianta che cresce spontanea lungo le rive del fiume Pescara, per poi essere cucinati alla brace all’aperto.

Dunque D’Annunzio non chiese mai al Suor Intingola di preparargli degli arrosticini? In realtà forse lo fece poco prima di morire, nel 1938, quando chiese alla sua cuoca “carne tagliata con il coltello a tocchetti irregolari di varia dimensione infilati nelle cippe. Spiedini preparati interponendo strati di carne magra a pezzetti di grasso sempre di pecora, per renderli morbidi e profumati. Ergo: arrosticini! A quel punto D’Annunzio poteva davvero morire in pace: abruzzese nell’indole e nel palato, indomito sino alla fine.

Foto di Lorenzo Lamonica, Rifugio Cima Alta, Prati di Tivo, TE, Italia.

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