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“Quando sono veramente nei guai, come può dire chiunque mi conosca, rifiuto tutto tranne che di mangiare e bere”. Quando Oscar Wilde – scrittore, poeta e drammaturgo, ma anche esperto conoscitore di cibi e vini – il 2 aprile del 1900 giunse a Palermo tutto si era in qualche modo già compiuto nella sua vita. La sua clamorosa biografia, fatta di successo mondano, scandali, provocazioni contro l’ottuso perbenismo dell’epoca, aveva imposto il suo personaggio sulla scena europea e anche americana; Lord Alfred Douglas, padre del suo giovane amante Bosie, aveva inoltre già inondato Londra di biglietti infamanti su di lui, c’erano stati processi per gross indecency, vale a dire omosessualità e atti osceni, con la pena di due anni di carcere ai lavori forzati.

Così, per l’ipocrita società vittoriana Wilde era diventato l’emblema di ogni malvagia decadenza. Dal canto suo Wilde, che si sentiva arrivato al crepuscolo, aveva solo bisogno di pace, di tranquillità, e cucina vera tanto da affermare in uno dei suoi celebri aforismi: “Detesto coloro che non prendono il cibo sul serio: sono troppo superficiali”. E ancora: “E’ un errore condannare la gastronomia. La cultura dipende dalla gastronomia”.

Wilde e le gioie della cucina palermitana

Non è dunque per caso che decise, prima di terminare la sua vita a Parigi, di godersi le tavole del capoluogo siciliano. Il cibo da strada di Palermo ha infatti origini antichissime, da ricercarsi nelle tradizioni popolari, ed è parte integrante dell’anima della città. In passato il cibo veniva preparato con gli avanzi dei ricchi al pianterreno delle abitazioni; anticamente erano i buffittieri a gestire la cucina di strada a Palermo, vendendo cibo popolare, povero sui ripiani e su dei banconi piazzati per la strada. Essendo appassionato di sandwich, Wilde di sicuro si fece irretire dal cibo di strada palermitano e, nonostante le sue condizioni di salute non fossero le migliori, le cronache dell’epoca lo rimembrano ottimo gourmand appassionato di pane e panelle e Pani ca’ Meusa, panino morbido imbottito con pezzetti di milza, polmone e, talvolta, trachea di vitello.

Ma perché Wilde scelse proprio la Sicilia per il suo ultimo viaggio lontano da Parigi? L’Italia era in verità un paese dove amava tornare, dopo essere stato folgorato in giovinezza durante il primo viaggio fatto nel 1875 in compagnia dell’amico William Goulding e del reverendo John Pentland Mahaffy, suo tutore, a Firenze, Bologna, Venezia, Milano, e poi due anni dopo a Genova, Ravenna, Brindisi e Roma.

Cacciato in malo modo dalla forte comunità inglese sia da Napoli che da Capri, Wilde arriva nella più “liberale” Sicilia nel 1897 insieme a Bosie, che non aveva ripudiato nonostante le angherie ricevute. “Mi ha rovinato la vita, e per questa stessa ragione sembro costretto ad amarlo di più” scrisse in una delle sue lettere italiane.

Oscar e Bosie si rifugiano a Taormina, protetti dal codice penale italiano che, diversamente da quello inglese o tedesco, non faceva parola di atti omosessuali tra adulti consenzienti. Wilde tratterrà di quel suo primo soggiorno in Sicilia un ricordo morbido e piacevole, tanto che, nonostante le condizioni di salute non certo buone, decise di tornarvi tre anni dopo, nel 1900, in compagnia del ricco e sulfureo Harold Mellor.

Wilde non è più bello come un dio greco, talmente imbolsito che non sembra avere niente a che fare con l’efebico dandy che dettava la moda a Londra. Si fermano a Palermo otto giorni e Wilde ne scrive con trasporto all’amico Robert Ross. La città gli appare splendida, “posta nella migliore posizione del mondo, la splendida valle che si stende tra due mari”, s’innamora della Cappella Palatina, tutta d’oro, dove “ci si sente come si fosse seduti nel cuore di un enorme nido, i suoi mosaici sono i più belli mai visti” e, con occhio appuntito, non dimentica di sottolineare le doti dei cocchieri che lo portano in giro, “ragazzi deliziosi magnificamente scolpiti”.

Fra i cocchieri preferisce Giuseppe, un seminarista che diventa presto suo sodale; per quattro giorni, fino all’ultimo, lo scrittore lo bacerà dietro l’altare maggiore della Cattedrale, quasi a voler spingere oltre la morte quel misto di desiderio e bisogno d’amore, consapevolmente giocato sul filo romantico della blasfemia verso la morale, e di ortodossia rispetto al carattere salvifico della bellezza, che ha caratterizzato tutta la sua vita e la sua opera. “La mia bocca è contorta dai baci, e mi nutro di febbri” nonostante tutti e tutto.

Alla fine di quegli otto giorni a Palermo Wilde, passando da Roma in occasione della Pasqua, tornerà a Parigi per completare la sua Passione: malato, gonfio ed emaciato, come lo ritrasse Toulouse Lautrec in uno dei più forti ritratti della storia. Morirà qualche mese dopo, a soli 46 anni, lasciandoci però prima l’ultimo dei suoi illuminati e indomiti aforismi: “Mi hanno detto che la mia malattia è sconosciuta. Sono davvero contento: morire di una malattia comune sarebbe stato molto umiliante”.

Credit photo: Dominique Josse