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“Si può cercar altro? Passi su queste cose e le avvolgi e le vivi, come l’aria, come un bava di nuvole. Nessuno sa che è tutto qui”.

Nel marzo del 1947 Cesare Pavese affidava alle pagine del suo diario, che divenne il libro “Il mestiere di vivere”, l’amore profondo per le Langhe piemontesi, terra dove era nato e dal 2014 patrimonio dell’Unesco. Nato a Santo Stefano Belbo, Cesare Pavese trascorrerà a Torino gran parte della sua vita ma manterrà sempre un intimo legame con la terra di Langa; come nessun altro autore egli ne coglie l’essenza più profonda, la forza ancestrale e le contraddizioni.

Le dolci colline, in mezzo alle quali si sente allo stesso tempo protetto e turbato, non sono mai semplice sfondo ma protagoniste del suo immaginario poetico: qui scopre durante l’infanzia e l’adolescenza la passione, l’esplosione degli istinti, il fluire della vita e la sua progressiva consunzione.

Animato da questo sentimento ancestrale, Pavese non si allontanò mai davvero da Santo Stefano Belbo; nelle sue opere le Langhe diventano essenza delle cose, elemento che permea di sé l’anima dello scrittore: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Se per Pavese il paesaggio coincide con l’interiorità, ecco che la donna agognata è la Langa sapiente, mistica e traditrice proprio come il suolo a un tempo fertile e duro, dolce e acre.

Gli amori di Pavese

Come Tina, la “donna dalla voce rauca, una voce di tempi perduti”, la cui frequentazione lo portò a essere prima incarcerato a Torino, poi a Roma e quindi spedito al confino a Brancaleone Calabro per mano del regime fascista che lo accusò di far parte, attraverso lei, del partito comunista clandestino. Una domanda di grazia, accolta, gli permise di tornare a Torino dopo un anno di lontananza, dove Pavese visse una lunga avventura sentimentale con Fernanda Pivano, anche lei innamorata della letteratura americana e sua allieva al liceo. Per cinque anni Fernanda fu la sua confidente ed è con lei che tornò a sperare di avere una casa e un amore: un rapporto che per Pavese avrebbe dovuto concludersi con il matrimonio, ma che lei invece rifiutò.

Da Torino le Langhe apparivano a Pavese lontane anni luce, nonostante la distanza tra i due luoghi non fosse di certo siderale e sebbene sia stato il capoluogo sabaudo a dargli fama e accoglienza come scrittore. A Torino infatti Pavese pubblicò la prima raccolta di versi, “Lavorare stanca”, e collaborò con l’editore Einaudi il che gli permise di esordire anche come romanziere con “Il carcere” e “Paesi tuoi”, di cui quest’anno ricorre l’anniversario della prima edizione.

Sempre da Einaudi, appena dopo la fine della Guerra, ebbe l’incarico di riorganizzare la sede romana della casa editrice; eppure nulla sarebbe riuscito a distoglierlo dall’amore sincero per la terra natia, forse perché proprio lungo il filo di questi incarichi “torinesi” Pavese si impigliò negli ultimi due amori malati della sua vita: prima Bianca Garufi e poi, pochi mesi prima del suicidio, l’americana Constance Dowling. L’ennesima passione delusa che gli farà scrivere:

“Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma, bruciato quattro donne… Hai la forza, hai il genio, hai da fare ma sei solo”. E, ancora: “Non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco; chi ho amato non mi ha mai preso sul serio e ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo”.

Cosa visitare nelle Langhe per rivivere i luoghi di Pavese

È in questo vivere inquieto, dove l’infanzia lotta con la vita adulta e la natura con la città, che le colline langarole diventano definitivamente luogo mitico, le radici che danno la sensazione di avere trovato, almeno per un attimo, il proprio posto nell’ordine cosmico. Perciò rituale è il ritornarvi oggi e ripercorrerle quasi come un cerimoniale magico e primitivo guidato dai versi di Pavese.

Oltre alla casa natale, la cascina di San Sebastiano oggi casa-museo, a Santo Stefano Belbo si possono visitare altri luoghi pavesiani: la Casa di Nuto, un museo che ripercorre l’amicizia tra Pavese e Pinolo Scaglione, la Collina della Gaminella, verso Canelli, dove è ambientato “La luna e i falò”, e Moncucco, la collina della poesia “I Mari del sud”. Costeggiando il torrente Belbo, si attraversa poi una piana circondata da lunghe file di pioppi fino a Cossano Belbo, dove, nel romanzo “La Luna e i Falò”, andarono ad abitare i genitori adottivi di Anguilla. Nel borgo, amato anche da Beppe Fenoglio, ci sono la fontana dello Scorrone e la panoramica chiesa della Madonna della Rovere, da dove si ammira tutta la vallata. Proseguendo verso sud si arriva infine a Castino “un paese sempre battuto da un vento frizzante e di là si vedono fumi lontani, piccini, nei vapori. Verso sera, specialmente, pare di essere in cielo”.

Il cibo nelle pagine pavesiane

Un cielo che, guidato dagli occhi verso i camini, recupera anche una vocazione densa di profumi e sapori di cucina. Se infatti Pavese appare a prima vista carente come narratore delle abitudini alimentari, una più attenta ricognizione delle sue pagine dimostra invece che la presenza del cibo ha un ruolo niente affatto marginale. Certo, Cesare Pavese rimarrà nella memoria più come fumatore convinto che come gastronomo, addirittura celebrativo per quanto riguarda le sigarette (“La vita senza fumo è come il fumo senza l’arrosto”); ma alle ricette codificate e immutabili della sua Langa dedica dedizione e devozione assolute: tra le altre le marinature del civet, il tempo lungo della polenta, le acciughe prima dissalate e poi disciolte nell’olio e accese dall’afrore dell’aglio per fortificare i raccoglitori d’uva con una bagna cauda ideale per verdure toste come peperoni e cipolle. E poi la carne del manzo, un paradiso in cui tuffarsi con una ciotola di bagnetto verde a portata di mano, e magari con a fianco un piatto di fritto dove la cervella e il midollo spinale diventano ancora più grassi e sensuali quando avvolti nell’impanatura, ingentiliti da semolino e fette di mela.

Alla fine, dopo aver respirato buone parole, splendidi paesaggi e ottima cucina, potrete terminare il vostro viaggio tra le Langhe di Pavese da dove lo avete iniziato, a Santo Stefano Belbo, con un saluto a chi vi ha regalato tutto questo, e in tal modo. Il cimitero, dove nel 2002 sono stati trasferiti i resti di Cesare Pavese, è infatti a solo poche centinaia di metri dalla casa natale. La sua tomba si trova sulla sinistra, subito dopo il cancello: sulla lapide è scritto “Ho dato poesia agli uomini”. Dopo questa esperienza non leggerete soltanto delle parole: sarete davvero grati, col palato e col cuore, a chi le ha scritte.

Foto di Ivan Maenza