«La loro terra per i veneti è una verità, un sogno di se stessi…», scriveva Guido Piovene.
Ecco, il Raboso è una metafora perfetta di tale attitudine veneta: vino della zona del Piave per eccellenza, celebra infatti simbolicamente la determinazione, la forza e il carattere epico di questa terra, rimasta nella memoria storica del nostro Paese in particolare per le gesta eroiche legate alla riscossa italiana che ha cambiato il corso della Prima guerra mondiale.
Non c’è Raboso senza Piave
Il Raboso è figlio della Piave nella parte fluente e visibile, ma anche in tutti i suoi rami sotterranei, che alimentano un terroir del tutto specifico. La Piave. Sì, perché nella parlata locale si dice infatti la Piave, e non il Piave, come impose invece a futura memoria nazionale la foga oratoria di Gabriele D’Annunzio, in un suo discorso ai combattenti attestati in riva destra del fiume per far fronte all’avanzata nemica; un’ode all’interno della quale la maschilizzazione del Piave, che in opere precedenti aveva invece indicato normalmente con l’articolo al femminile, doveva nella sua intenzione rinforzare, con immaginifica espressione, la virilità della linea di difesa a oltranza. “Il fiume che dimenticò di sorridere” lo definì invece, probabilmente con maggiore ispirazione, Charles Dickens.
Le caratteristiche del vitigno Raboso e la storia del nome
Attraverso il suo legame, sopra e sotto la terra, con la Piave, il Raboso richiama a raccolta la somma di addendi culturali che nei secoli hanno lasciato una traccia profonda nella civiltà veneta; e oggi, quest’uva a bacca nera, storicamente legata alla Repubblica di Venezia e ai vigneti della sua terraferma, continua a onorarci con questo vino che in altri tempi si definiva Vin Moro, in lingua veneta aggettivo qualificativo che significa scuro, bruno.
Vino di antichissima origine – il cui nome si dice derivi forse dall’omonimo affluente del fiume Piave, ma più probabilmente anche dall’assonanza con l’aggettivo “rabbioso”, che nel dialetto veneto viene spesso sostantivato – per secoli il Raboso fu il solo vino che la Serenissima riuscì a esportare anche fino in oriente; merito delle sue caratteristiche di varietà robusta, ricca di tannini e con un’alta percentuale di acidità, resistente a muffe e peronospora, al freddo come alla siccità e il passare del tempo.
La vite del Raboso, vitigno autoctono e scorbutico, è la prima a germogliare e l’ultima a concedersi alla raccolta del proprio frutto: se ne trae un vino aspro, difficile già in origine, dalle caratteristiche organolettiche più vicine a quelle della buccia d’uva ancora selvatica, domabile solo avendo la giusta pazienza. Proprio per la sua proverbiale “non gentilezza”, si devono attendere gli anni ‘90 per una sua giusta qualificazione e un progressivo rilancio che continua, per fortuna, anche oggi grazie alla progressiva riscoperta dei vigneti autoctoni nella viticoltura tricolore, associata alla promozione degli itinerari a beneficio degli amanti del buon bere.
I luoghi del Raboso e gli abbinamenti migliori
A tal proposito, sulle vie del Raboso certamente un punto di riferimento è la piccola chiesa di San Giorgio, nelle splendide campagne tra Ormelle e San Polo di Piave, dove la Marca trevigiana si approssima al Friuli occidentale. Immersa tra vigneti e campi coltivati, questa chiesa conserva al suo interno splendidi affreschi del ‘400 fra i quali spicca una Ultima cena tutta speciale, dipinta da Giovanni di Francia nel 1466; l’Ultima cena “veneta”, rustica e vivace, mostra, accanto all’agnello nel vassoio, gamberi rossi e chele sparse e vino rosso (raboso?) che sono da sempre caratteristici del posto e sono anche oggi una specialità rinomata della cucina del territorio.
Restando in tema culinario e gastronomico, il Raboso, data la resa bassissima rispetto al raccolto, è davvero un vino prezioso: lasciato maturare (da protocollo il periodo di invecchiamento deve essere di almeno tre anni, di cui uno in botte), infatti acquista col tempo un bel colore rosso rubino carico, con riflessi granati, uno splendido bouquet ampio e pieno che ricorda le violette di campo e anche, marcatamente, il profumo di marasca; per queste sue caratteristiche, risulta adatto ad accompagnare la cacciagione di pelo e di piuma, le carni rosse, le grigliate, i formaggi molto invecchiati ma anche, a sorpresa come da tradizione locale, gamberi e fritture di pesce.
Fatevi incantare da questa rabbia che diventa poesia, da questo vino scuro che va atteso con la giusta calma e che ha saputo adattarsi nei secoli al territorio e al clima diventando mai del tutto docile, ma del tutto sincero e accattivante al palato. D’altro canto, come insegna la lezione dei proverbi veneti, “A questo mondo si può adattarsi, arrabbiarsi, disperarsi. Ma, potendo, è sempre meglio scegliere la prima”.
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