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“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il sottotenente Fëdor Michajlovič Dostoevskij si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio…”. È forse parafrasando il celebre incipit di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez che possiamo cogliere una sfumatura determinante di quel 22 dicembre 1849, giorno in cui Dostoevskij fu condotto insieme ad altri venti compagni in piazza Semenovskij, a Pietroburgo, dalla fortezza dei Santi Pietro e Paolo dove era stato rinchiuso; gli lessero la sentenza, gli fecero baciare la croce, spezzarono gli spadini sopra la sua testa secondo il rigido cerimoniale previsto per i nobili, lo vestirono della tunica bianca dei condannati a morte e li legarono per tre al palo dell’esecuzione. A Dostoevskij, sesto della fila, nel secondo terzetto, rimase ancora qualche istante per abbracciare i compagni e pensare al fratello; solo un attimo prima dell’esecuzione venne letto il proclama che annunciava la grazia imperiale della quale i prigionieri erano stati volutamente tenuti all’oscuro, con la commutazione di pena: lavori forzati, o semplice deportazione in Siberia.

Il parallelismo tra Macondo e San Pietroburgo, tra Garcia Marquez e Dostoevskij, appare solo apparentemente incongruo; spesso infatti ci si è riferiti all’opera di entrambi usando le categorie del “realismo fantastico”, “simbolico”, “mistico” o “magico”. È anche per questo, per la sua capacità di dialogare attraverso le epoche che, a 200 anni dalla sua nascita (11 novembre) e a 140 dalla morte (9 febbraio), Fëdor Dostoevskij continua a essere un autore di notevole attualità: non solo per come ha raccontato vizi e atrocità, ma anche per come ha scavato nell’animo, indagando il sottosuolo dell’essere umano.

La casa di Dostoevskij a Firenze

Il punto più alto di tangenza tra America Latina e Siberia ha un nome, Firenze, anzi una casa in Piazza Pitti dove lo scrittore moscovita visse per circa un anno tra il 1868 e il 1869. È da questa casa che egli fa dire al principe Myskin nell’Idiota:

Leggete a questo soldato la sentenza che lo condanna con certezza, e impazzirà o si metterà a piangere. Chi ha detto che la natura umana è in grado di sopportare questo senza impazzire? Perché un affronto simile, mostruoso, inutile, vano? Forse esiste un uomo al quale hanno letto la sentenza, hanno lasciato il tempo di torturarsi, e poi hanno detto: va’, sei graziato: ecco un uomo simile forse potrebbe raccontarlo.

L’itinerario di Dostoevskij in Italia e i suoi libri

Dostoevskij giunge in Italia due volte, nel 1862 e nel 1868, sospinto da difficoltà economiche e crisi di salute che lo indussero a viaggi all’estero per sfuggire i creditori e curarsi dall’epilessia. Nonostante la tragedia che nel 1864 gli tolse sia la seconda moglie che la figlia, proprio in questi anni scrisse alcuni dei suoi romanzi più significativi: “Umiliati e offesi” (1861), “Memorie del sottosuolo” (1865), “Il giocatore” (1866), “Delitto e castigo” (1866) e “L’idiota” (1868-69), opere che segnano un approfondimento dello studio sull’animo umano e preludono alla grande sintesi rappresentata da “I demoni” (1871-’72) e, in primis, da “I fratelli Karamazov” (1879-80).

A Firenze arrivò al termine di un itinerario che lo portò a Torino, Milano, Roma e Napoli. Dostoevskij amava l’Italia e la raggiunse come chi si mette in cammino per un pellegrinaggio culturale e spirituale, tanto da parlarne con cognizione di causa e amore:

Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo; non una qualunque idea astratta, non la speculazione, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita umana.

Dove Dostoevskij abitò a Firenze

Il 1868 è l’epoca di Firenze capitale; a Palazzo Pitti abita il re dell’Italia unita ed è proprio qui che Dostoevskij prese in affitto un appartamento al secondo piano di casa Fabiani, proprio sulla spettacolare piazza su cui s’affaccia il Palazzo Reale. “Il cambiamento ebbe di nuovo un effetto benefico su mio marito e noi cominciammo ad andare insieme per chiese, musei e palazzi”, annotò la sua terza moglie Anna tra i ricordi del loro felice anno fiorentino; è qui che nacque la loro bambina che chiamarono Lubjov (“amore” in russo); soprattutto, è qui che Dostoevskij concluse “L’Idiota”: quel progetto che, come si legge nei suoi diari, lo tormentava da tempo perché voleva dare sostanza a un’idea difficile, quella di “raffigurare un uomo assolutamente buono”.

La nostalgia dell’autore per l’Italia

Ma anche con il rientro a Pietroburgo l’Italia non scompare. Dagli articoli che Dostoevskij pubblica sulla rivista d’attualità Grazdanin traspare infatti un sentimento di nostalgia per il Paese che “aveva affermato lungo duemila anni un’idea universale e reale: l’unione di tutto il mondo”. In Italia Dostoevskij ha trovato probabilmente quell’ossigeno, e quel pathos legato al sublime, che gli ha permesso poi di lavorare non più su una sola voce, quella del protagonista feroce, ma su un pluralità delle voci; arrivando così a quel romanzo polifonico dove lo spirito del filosofo, del pensatore politico, persino del teologo si sono trovati finalmente riuniti. Certo, Dostoevskij rimarrà per tutta la sua vita un autore che agisce sempre sul confine, sul limitare di realtà, universi, spazi esistenziali e culturali diversi; sul filo tra vita e morte, letteratura e verità, salvezza e abisso, bene e male, fede e ateismo, tra Russia ed Europa. Ma è come se Firenze, e l’Italia, fossero state in grado di fargli balenare alla mente una ipotesi di nuova frontiera, un nuovo punto di vista dal quale scrutare la Russia e l’anima del mondo. Da questo approdo, lo scrittore si concentrerà ancora sullo scontro tra Dio e Satana che si gioca nell’anima dell’uomo sospesa sul ciglio; ma non vedrà più solo disordine, dramma, sottosuolo, bensì una possibilità di bellezza: quell’assolutamente bello, quella grazia pietosa e redentrice che per Dostoevskij si incarnava ad esempio nell’epifania mariana della Madonna Sistina, nell’immagine di Raffaello o, più prosaicamente, nel suo amore per l’architettura italiana.

In qualche maniera, è come se l’Italia abbia rivelato a Dostoevskij una ipotesi di salvezza anche terrena per i suoi protagonisti: mentre Pietroburgo – città di canali, fogne, acqua grondante – è nel suo ventre la tana di animali immondi, Firenze e l’Italia sono la terra dell’angelo; è in questo quadro che va inserito, come portatore dell’idea della bellezza e della bontà, il principe Myškin de l’Idiota.

In una lettera al fratello Michail un allora giovane Dostoevskij scrisse: “L’uomo è un mistero. Noi dobbiamo svelarlo. Anche se impiegherai l’intera vita per svelarlo, non dire che hai perso tempo”. Ecco, pur partendo dall’esperienza di un patibolo sempre presente nella sua memoria, l’Italia gli ha restituito il senso di questo cercare, tanto da poter dire che come Dante a Firenze attraverso l’amore comprese la morte, così Dostoevskij attraverso la morte comprese l’amore.

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Foto di Vicky T