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Il capolavoro di Hemingway “Addio alle armi” e la critica alla guerra

La guerra è ciò che accade quando il linguaggio fallisce, ha detto Margaret Atwood. È una grande verità perché per raccontare, accompagnare o giustificare una guerra, nel tempo la lingua si è ammansita, come rimpicciolita. Piccolo massacro. Attacco chirurgico. Operazione speciale e mirata. Tutte creazioni lessicali tese a ridurre la portata degli effetti della notizia sul pubblico.

Ma una volta il racconto della guerra non era così: perché chi ne scriveva la guardava in faccia, e quindi non ne nascondeva le ferite, i delitti, le pene, la violenza. La narrazione si faceva e rimaneva storia, epica, cronaca: non si celava dietro un lessico astuto. Da Erodoto in avanti, passando per Giulio Cesare e Machiavelli, la guerra sino all’età moderna era fatta di cronache fedeli degli attacchi, delle strategie sia belliche che politiche; bollettini sotto forma di dialogo come ne Il principe, dove viene presentata una “arte della guerra” che insiste sullo studio dei punti di forza e di debolezza dell’avversario, sulla consapevolezza dei propri limiti ma anche la fiducia nella propria forza, su cosa, in definitiva, permette di sorprendere continuamente il nemico tradotto nella famosa formula metaforica machiavelliana della volpe e del leone.

La guerra nei romanzi del primo Novecento

Passando al Novecento, nel secolo scorso quando la letteratura si è posta il problema della guerra, o l’ha usata come teatro narrativo, ha fatto spesso un ottimo lavoro. Rimanendo in Italia possiamo citare Emilio Lussu, scrittore sardo a cui va il merito di aver raccontato in modo forse inarrivabile la Grande Guerra nel suo romanzo Un anno sull’altipiano. L’Altipiano è quello di Asiago, di cui si racconta “in diretta”, Lussu era presente al fronte, il periodo che va dal giugno 1916 al luglio 1917: un anno di continui assalti a trincee inespugnabili, di battaglie assurde volute da comandanti imbevuti di retorica patriottica e di vanità, di episodi spesso tragici e talvolta grotteschi, attraverso i quali la battaglia viene rivelata nella sua dura realtà di “ozio e sangue”, di “fango e cognac”.

I grandi scrittori raccontano l’esperienza della guerra nella Resistenza

L’epopea della Resistenza e del secondo conflitto mondiale trova invece probabilmente le vette più alte grazie a Italo Calvino, Beppe Fenoglio e Primo Levi. In particolare un Calvino giovane, ancora lontano da fascinose suggestioni immaginifiche, nel suo primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno narra il conflitto attraverso gli occhi di Pin, bambino passato, come per caso, dai giochi violenti dell’infanzia alla dura realtà del conflitto; Fenoglio dal canto suo, richiamato alle armi nel 1943, a 21 anni, dopo lo sbandamento seguito all’8 settembre 1943, nei suoi libri più conosciuti – Una questione privata e Il partigiano Johnny – racconta di giovani combattenti tra amore e guerra, battaglie campali e legami tra formazioni partigiane. L’elenco, di sicuro incompleto e necessariamente asciutto, non può certamente dimenticare Primo Levi che, se esula nei suoi libri dal racconto delle vicende belliche in senso stretto, ha raccontato al mondo l’esperienza terribile dei campi di concentramento attraverso Se questo è un uomo, La tregua e La chiave a stella.

Addio alle armi: il capolavoro di Hemingway

Le battaglie. Gli uomini. La sofferenza che uccide ogni presunta idea di coraggio con cui, magari, qualcuno poteva essere partito per il fronte. Tale perimetro narrativo ha trovato la sua sintesi eccelsa grazie ad un americano che ha deciso di scrivere di questo ispirato dall’Italia, a cavallo tra il Piave e Milano, Ernest Hemingway. Addio alle armi è la storia che Hemingway aveva sempre meditato di scrivere ispirandosi alle sue esperienze del 1918 sul fronte italiano, in particolare alla ferita riportata a Fossalta durante la “Battaglia del Solstizio” e il suo successivo ricovero in un ospedale di Milano dove lo animò la passione per l’infermiera Agnes von Kurowsky.

La critica alla retorica della guerra e la sconfitta della Storia

Addio alle armi venne tradotto da Fernanda Pivano che finì anche in carcere durante il periodo fascista per questa sua attività, considerata non solo clandestina ma anche capace di minare, secondo il regime, il senso di ardimento del popolo italiano. Questo perché, spesso definito come un banale romanzo d’amore e d’armi, in realtà rappresenta a pieno il sentimento di critica contro ogni forma di violenza e soprattutto uno sguardo consapevole sull’esistenza della morte e della sofferenza. A ben vedere, Addio alle armi dice infatti alla fine una cosa sola: che si fa la guerra, ogni volta, come se non si fosse compreso nulla, come se non esistesse Storia. E che vincere una guerra è disastroso quanto perderla: perché anche se si vince, anche se si sopravvive, nei vinti e nei vincitori sopravvissuti rimane un terribile vuoto negli occhi, come se dovessero vivere perennemente comunque abbracciati alla morte.

Il romanzo di Ernest Hemingway ci riporta agli occhi domande e dilemmi che, purtroppo, ci circondano. Se l’uso diretto della forza è una soluzione così povera per qualsiasi problema, perché l’uomo vi ricorre periodicamente dimenticando la Storia? Perché uccidiamo persone? Abbiamo bisogno di quante ulteriori prove per dimostrare forse che uccidere è inutile oltre che immorale?

La guerra che, come nel caso dell’Orazio di Müller, rende labile il confine tra l’eroe e l’assassino, confondendo le nostre coscienze.

La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri, ha sottolineato Hannah Arendt. Quando viene dichiarata una guerra, la prima vittima è la Verità; poi, subito dopo, arriva l’uomo e la sua coscienza. Per questo speriamo davvero che “Addio alle armi” portato a teatro diventi un auspicio.

Anzi, una vocazione per il futuro.

Se vuoi conoscere gli altri luoghi del nostro Paese cari a Ernst Hemingway leggi l’articolo di Emanuele Finardi qui