Il rapporto tra Giacomo Puccini e Torre del Lago è un colpo di fulmine: il Maestro si innamorò di questo luogo dal primo momento, ne fu stregato, ispirato e protetto; una storia d’amore lunga trent’anni.
Il luogo dell’estro creativo di Puccini
Torre del Lago è sempre stata, per Puccini, un luogo in cui ritrovare la pace e la tranquillità indispensabili all’estro creativo; ha infatti composto nella sua casa davanti al lago di Massaciuccoli, originariamente una torre di guardia da lui fatta ristrutturare, tutte le sue opere maggiori, tra cui la Tosca (1900), Madama Butterfly (1904), La Fanciulla del West (1910), La Rondine (1917) e Il Trittico (1918). Non è dunque forse un caso che l’ultima opera, l’unica sua incompiuta, la Turandot, sia rimasta sospesa nel suo finale a Viareggio, dove Puccini si trasferì nei suoi ultimi tre anni di vita quando era già avversato dalla malattia, che lo ghermì definitivamente nel novembre 1924, in clinica, a Bruxelles.
Dalla povertà all’agiatezza: le passioni della sua vita
Amante, oltre che della musica, della caccia, delle automobili e delle donne, uomo dalla corporatura imponente e di bell’aspetto, Giacomo Puccini era un dandy elegante e un buongustaio dall’umorismo tipicamente toscano: un gentleman affabile, generoso e democratico, lo definì Igor Stravinskij. Così, quando riusciva, gli piaceva far combaciare tra loro queste propensioni: ad esempio, dal momento che adorava fare fuoristrada durante le sue battute di caccia, chiese a Vincenzo Lancia di creare appositamente per lui un’automobile con telaio rinforzato e ruote adatte; una sorta di primo SUV che gli costò 35 mila lire, l’equivalente di circa 150 mila euro di adesso.
Puccini, nato in una famiglia non certo agiata, attraverso il successo della sua musica riuscì a togliersi molti sfizi, anche roboanti e stravaganti: oltre alle 14 automobili acquistò sei case, cinque barche a motore e un costoso yacht che chiamò Cio-Cio-San, il nome della geisha protagonista di Madama Butterfly. Ma, quando si metteva a scrivere, tornava quel ragazzo che nel 1876, a soli diciotto anni, non potendosi permettere né un biglietto del treno né tantomeno una carrozza, fece a piedi da Lucca a Pisa insieme con gli amici per andare a vedere l’Aida, rimanendone stregato. Come ebbe a scrivere ad Arturo Toscanini dopo una Manon Lescaut alla Scala nel 1923: “Tu mi hai dato la più grande soddisfazione della mia vita! Ho sentito tutta l’anima tua grande e l’amore per il tuo vecchio amico e compagno delle prime armi. Io sono felice perché tu hai, sopra tutti, saputo comprendere tutto il mio spirito giovane e appassionato di trent’anni fa. Grazie dal profondo del cuore”.
Villa Puccini oggi
Puccini è sepolto a Torre del Lago, in una cappella costruita nella sua vecchia casa oggi diventata museo, insieme alla moglie e al figlio. E non poteva che essere così.
Villa Puccini è per questo un luogo affascinante, particolare, che trasuda della identità del Maestro: uno spazio dell’anima, della storia e dell’arte, dove non si può fotografare ma solo vedere e ascoltare, come si faceva una volta. La visita di queste stanze resta pertanto un’esperienza fisica e musicale; una preziosa scommessa tra il ruolo della fotografia e quello della voce, tra mostra e narrazione, tra quelle che, in definitiva, non sono altro che due delle forme di sopravvivenza del bello nel mondo. È forse un contrappasso, verrebbe da dire: l’ultima dedica all’ultimo maestro dopo il cui decesso l’opera lirica sarebbe morta.
L’incompiuta Turandot
La storia della Turandot è in questo senso magistrale: a Puccini, pur tra mille difficoltà legate al tumore alla gola che lo stava divorando, mancava ormai solo il finale, la scena della trasformazione della principessa e della sua apertura all’amore.
Ma a quel punto, era il 1924, le sue condizioni di salute peggiorarono e non gli lasciarono il tempo di scrivere una chiusura convincente. In seguito ad un intervento chirurgico, ebbe un infarto e morì, lasciando solo alcuni fogli, ventitre per l’esattezza, con appunti sulle idee che aveva avuto per sviluppare la conclusione.
La Turandot andò in scena per la prima volta, alla Scala di Milano, il 25 aprile 1926, un anno e cinque mesi dopo la morte di Puccini. Quella sera Toscanini preferì non eseguire il finale, interrompendosi proprio subito dopo il funerale di Liù; posò la bacchetta, si rivolse al pubblico e disse: «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto».
Turandot, l’opera senza fine, segna la fine del genio di Puccini ma anche, simbolicamente, la morte del melodramma romantico e della stessa opera italiana come particolare intreccio di esotismo e drammaticità, reso in modo così particolare da musica e personaggi.
Negli anni successivi ci saranno ancora opere, e compositori d’opera lirica, ma… sarà tutta un’altra storia. La grande voce dell’opera italiana, l’età dell’oro del melodramma epico cantato, finisce con la Turandot. Nata come fiaba, muore in tragedia. In levare. Senza un vero punto. Come ultimo capolavoro eccelso, solenne e impietoso.