“Questa bevanda del diavolo è così buona… che dovremmo cercare di ingannarla e battezzarla.” Erano gli inizi del 1600 e queste parole di Papa Clemente VIII che definivano il caffè come un liquido barbaro e demoniaco, ma anche magico e promettente per i miracoli, segnano per gli studiosi l’inizio della diffusione della bevanda in tutta Italia.
Il caffè nella cultura napoletana
Tutti sanno che il caffè è uno degli elementi più famosi della tradizione Napoletana; se infatti Venezia, e non Napoli, è stata nella storia la città in Italia dove per prima si è diffuso il suo culto, è indubitabile che, una volta giunto sotto il Vesuvio, il caffè sia entrato sotto pelle nella cultura e nel linguaggio di un popolo come in nessuna altra parte della Penisola e del mondo. Una presenza attestata ufficialmente solo dagli inizi del XIX secolo, quando i caffettieri ambulanti iniziarono a girare per la città portando su un vassoio due tremmoni (contenitori) pieni di caffè e di latte, e nell’incavo del braccio una cesta con i bicchieri, lo zucchero, le bottiglie di rum e anice (‘o senso) e alcune tazze tenute agli uncini.
Cos’è il caffè sospeso
L’usanza del caffè sospeso è legata proprio a queste figure, ed è andata affermandosi in particolar modo dopo il Secondo Conflitto Mondiale: in tempi difficili come quelli, molte persone erano infatti solite saldare il conto per due tazze di caffè, una per loro e una per chi non avrebbe potuto pagarlo. Nasce pertanto come un’abitudine filantropica e solidale, ancor oggi viva, che si innesta all’interno di un repertorio di gesti coesivi in uso nella società napoletana, tra cui il cosiddetto “acino di fuoco”, un tizzone portato sulla paletta che, nei cortili napoletani, veniva offerto da chi aveva già acceso il focolare in ore più mattiniere, a beneficio degli altri coinquilini che potevano risparmiare il consumo dei fiammiferi, merce molto preziosa in quel tempo.
Un itinerario speciale per visitare Napoli
Dato il suo forte collegamento con l’anima e la storia della città, seguire le vicissitudini e il profumo del caffè sospeso può diventare davvero un modo speciale per visitare Napoli, addentrandosi nel suo cuore pulsante. Partendo anzitutto da Piazza del Plebiscito, dove nel 2010 il prestigioso Gran Caffè Gambrinus, da sempre punto d’incontro di letterati e intellettuali, decise di rinnovare tale tradizione per festeggiare i 150 anni di attività; oppure gustandolo a regola d’arte – servito in una tazza svasata, bassa, spessa e bollente, preceduto da un bicchiere d’acqua gasata – al vicino “Caffè del Professore”, al Bar Mexico in Piazza Garibaldi o Piazza Dante, per non parlare del Gran Cafè Ciorfito, nelle immediate vicinanze di San Gregorio Armeno, o del Gran Caffè la Caffettiera, storico locale che si trova anch’esso nel centro del salotto buono di Napoli.
Il rito si diffonde in tutto il mondo
Insomma, il caffè sospeso è un atto di gentilezza che si perpetua nel tempo e pare sia inarrestabile, tanto da essere ormai d’uopo dedicargli, il 10 dicembre di ogni anno, una giornata ad hoc; non è dunque un caso se molti bar nel resto d’Italia hanno fatto propria l’usanza e se la sua eco è arrivata anche in Spagna, Svezia e Francia, dove è stato localizzato come café en attente. Ma la cosa più interessante è che il rito del caffè sospeso ha avuto fortuna anche fuori dall’Europa, grazie al New York Times ma soprattutto quando il food blogger Corby Kummer, qualche anno fa, ha parlato di questa abitudine tutta italiana sulle pagine di “The Atlantic”, invitando catene come Starbucks a proporre anche ai propri clienti di aderire a questa usanza popolare e illuminata.
Come e quando il caffè arriva Napoli
Eppure come si diceva a Napoli, dove oggi lo consideriamo un rito, il caffè arrivò molto in ritardo, in modi misteriosi e, quasi, leggendari. C’è chi racconta che tutto ebbe origine dalle pene d’amore di un musicologo romano, Pietro della Valle, che nel 1614, abbandonata la Città Eterna per una delusione amorosa, si stabilì nella città partenopea dove diffuse il consumo di una specialissima bevanda (kahve) assaggiata in Medio Oriente. Altri sostengono che il caffè arrivò clandestinamente all’Università di Medicina di Salerno (dove tra l’altro è stato anche inventato il gin), spacciato come farmaco un secolo prima del viaggio di Della Valle. Altri, ancora, che il caffè potrebbe essere stato già presente in Campania verso il 1450, quando a Napoli regnavano gli Aragonesi.
Lasciando da parte la data effettiva del primo incontro, sta di fatto che, a differenza di altre città di Italia ed Europa, Napoli iniziò ad apprezzare davvero la bevanda solo agli inizi dell”800. Fu solo allora che la città si arricchì infatti delle colorite grida di caffettieri ambulanti i quali, oltre a fornire una colazione veloce ai napoletani più affrettati, urlavano ogni giorno il nome del santo che si festeggiava: perché a Napoli, si sa, l’onomastico è cosa ben più seria del compleanno.
In altre parole, al di là delle date e delle ricostruzioni, il segreto dell’amore immutabile e infinito tra Napoli e l’oro nero di natura è solo uno: quello che il caffè, come duecento anni fa, serve ancora a consolidare legami, in un contesto simbolico dove oggetti e stati fisici finiscono per assumere un significato immateriale. Il caffè per il napoletano è linguaggio: una sorta di radar, di sonda, un importante preliminare che precede ogni gesto. Così, il caffè non è solo la tazzina, ma è un modo per relazionarsi: è il primo approccio, i primi momenti in cui ci si studia, si scambiano opinioni, ci si svela l’un l’altro. È, quindi, un attimo unico, indifferibile e irrinunciabile. Personale e collettivo.
A proposito, ricordate che a Napoli si dice café, la effe non raddoppia ma non è neanche singola, una cosa di mezzo insomma: che avvicina, unisce… e genera anche miracoli. Non per niente il grande Eduardo De Filippo disse: “Quando io morirò, tu portami il caffè, e vedrai che io resuscito come Lazzaro”.
Credit photo: Giorgio Montersino