– Mi chiedo se per caso hai letto “I Libri di Natale” di Dickens – domandò Robert Louis Stevenson a un amico […] Io ne ho letti due, e ho pianto come un bambino.
Le opere di Charles Dickens, fra gotico e impegno sociale
È risaputo, far piangere a dirotto uno scrittore non è cosa da tutti: poteva riuscirci così bene solo Charles Dickens, l’uomo che ha inventato il Natale. Una definizione diventata storia: coniata per le cartoline promozionali che circolavano a Londra e dintorni nel 1843, anno in cui pubblicò “A Christmas Carol”, si è dimostrata un’etichetta talmente resistente che nel 2017 l’adattamento cinematografico del romanzo di Les Standiford diretto dal regista Bharat Nalluri – aveva come titolo proprio The Man Who Invented Christmas.
Il “Canto di Natale” è un romanzo breve di genere fantastico il cui segreto sta nella frase Being a Ghost-Story of Christmas messa dall’autore a commento: il racconto infatti unisce al gusto gotico nella raffigurazione dei personaggi, l’impegno nella lotta alla povertà, allo sfruttamento minorile e all’analfabetismo, che Dickens ha tenuto spesso al centro delle sue opere. Il Natale del passato, del presente e del futuro – che fanno visita sotto forma di spiriti al vecchio e tirchio Ebenezer Scrooge convincendolo a un profondo cambiamento – non sono dunque solo un espediente di racconto, ma tracciano il percorso culturale, sociale e antropologico attraverso cui noi tutti, anche oggi, viviamo la celebrazione del Natale come festa popolare densa di significati che vanno oltre gli addobbi e i regali.
Si dice che Dickens fosse molto mattiniero e grande camminatore e che tali abitudini fossero alla base di quella energia e curiosità inesauribile che usava come veri e propri carburanti narrativi; anche quella mattina del Natale 1843 dunque Dickens sarà uscito dal suo appartamento londinese a Covent Garden con l’obiettivo di godersi il successo del “Canto di Natale” e, allo stesso tempo, di trovare nuove storie.
Dickens in Italia
Quello che però ancora non sapeva è che il racconto capace probabilmente di provocare più gioia e sollievo di qualsiasi altro testo natalizio, sarebbe diventato presto fonte per lui di molti problemi economici, ben cinque cause in tribunale e una lunga serie di guai accessori. Furono questi i motivi principali per cui nel 1844 decise di trasferirsi in Italia con la famiglia; insomma, appena dopo aver inventato il Natale Dickens, come altri scrittori prima e dopo di lui, decise di liberarsi dai suoi fantasmi venendo nella nostra Penisola. Ci rimase per molti mesi, durante i quali nacque il suo quinto figlio, Francis, e le sue fortune piano piano si ripresero sino al grande successo corrispondente all’uscita di “David Copperfield”, nel 1849.
Dickens, a questo punto a ragion veduta, amava l’Italia e ci tornò molte volte fissando la maggior parte dei suoi appunti in “Impressioni italiane”, diario di viaggio pubblicato nel 1846 – più volte aggiornato – prevalentemente tratto dalle lunghe lettere scritte da vari luoghi della Penisola agli amici, in particolare al suo futuro biografo John Forster.
“Ti manderò le mie descrizioni di tanto in tanto – aveva promesso Dickens a Forster prima della partenza – e tu potrai giudicare se ne potrà ricavare o meno un libro nuovo e attraente”. Così fu, e “Impressioni italiane” presenta il nostro Paese attraverso una sorta di lanterna magica, capace di restituire immagini in primis di Genova e poi a corollario di un tour che ha condotto Dickens e famiglia a La Spezia, Roma, Napoli, Firenze, Bologna, e Venezia. Coerentemente con il suo nuovo spirito “mediterraneo”, le lettere dall’Italia di Dickens testimoniano la verve di una scrittura epistolare capace di esprimersi in maniera più agile e disinvolta rispetto alla narrazione romanzesca: dove ogni esercizio di contabilità narrativa spicciola tipico del romanzo è dall’autore volutamente destinato al fallimento.
Le impressioni fantastiche nelle opere di Dickens
Le “impressioni” di Dickens si fondano dunque su un sistematico e volontario boicottaggio dell’oggettività, delle cose viste, in favore di un assunto onirico e gotico attraverso cui Dickens ritrae una nazione di grandi, affascinanti, contrasti. Egli è particolarmente attratto dai costumi del popolo, da giochi e feste, dagli spettacoli teatrali e dalla pura esuberanza del carnevale, tanto che alla fine l’Italia finisce per assumere i contorni di un miraggio osservato da una navicella spaziale; come se la frontiera delle Alpi una volta varcata avesse disvelato ai suoi occhi, alla Jules Verne, invece che un treno o un aereo, un mezzo molto più spericolato: pronto per andare a schiantarsi come un fuoco d’artificio in una locanda tutta lazzi d’allegria, o per ubriacarsi di bellezza, di arte, di sole, di pace, lungo qualche riva.
Dickens ci restituisce l’Italia come un reame ibrido, sospeso fra memoria e fantasia, popolato da personaggi da Grand Guignol ante litteram. Un baule stipato di fotografie intense destinate a riaffiorare con il loro calore una volta tornato con la famiglia in Terra d’Albione; istantanee che restano e che torneranno sul cammino dell’inventore del Natale con la persistenza magica permessa solo dalle apparecchiature ottiche proprie dei visionari. Sogni incalliti dove i binocoli assomigliano a caleidoscopi e dove le abitazioni si ingigantiscono come nel mondo delle meraviglie di Alice, ospitando nei loro giardini persino statue di colossi ipertrofici. Una terra degli spiriti che si annidano dietro le mura e i portali delle antiche costruzioni classiche, in un’atmosfera intrisa di fantasticheria.
Un viaggio ad occhi aperti in cui dietro le deformazioni di un continuo lavoro onirico si celano le topografie di Roma, di Napoli, di Torino, di Milano, sino a quella Venezia, capace di far definitivamente crollare anche l’ultimo appiglio di razionalismo. Non a caso, proprio a Venezia Dickens ammette a sé stesso che lo spirito di Shakespeare, giunto cento chilometri più in là direttamente dalla città di Giulietta e Romeo, fosse appena fuori dalla sua finestra, intento a vagare per la città in qualche punto sulle acque.
Una ispirazione, una evocazione, una musica che lo consolava e lo esaltava: da qual momento in avanti, disse, potrò svegliarmi la mattina di Natale ricordandomi che posso innamorarmi della vita una volta in più. O, con le parole di Mr. Scrooge, di tutti i suoni giocondi uditi in vita sua, i più giocondi, senz’altro, erano stati quelli d’Italia.
Nella foto, Villa delle Peschiere, dove soggiornò Dickens a Genova