Luchino Visconti, Eduardo De Filippo, Mario Monicelli, René Clément, Franco Zeffirelli, Francis Ford Coppola e, soprattutto, Federico Fellini. Un Premio Oscar alla migliore colonna sonora, un Golden Globe, un Premio BAFTA, un Grammy Award, un David di Donatello e cinque Nastri d’Argento. Basterebbero queste due semplici liste a descrivere Nino Rota, all’anagrafe Giovanni Rota Rinaldi, uno dei più geniali e prolifici compositori che hanno fatto grande il cinema italiano e internazionale; ma se le liste da un lato aiutano, dall’altro in questo caso non descrivono con dovizia la sua influenza sull’immaginario di intere generazioni.
“Ninetto carissimo. Ma quando ritorni? Scusa se ti scrivo a macchina e così in ritardo ma io ho una calligrafia illeggibile. Non ti ho risposto subito alla tua prima cartolina, ma ti penso spesso e qualche volta faccio anche delle chiacchieratine con te. Anche Giulietta ti saluta tanto e quando parla di te ha sulle labbra un sorriso misterioso da buona fatina. Ciao Nino caro, a presto”.
Fellini e Nino Rota
Bastano queste poche righe a dimostrare la storia della lunghissima amicizia tra Rota e Fellini, una straordinaria collaborazione artistica durata quasi tre decadi e interrotta dalla morte improvvisa e prematura del grande compositore e musicista avvenuta il 10 aprile 1979. Fellini lo volle al suo fianco per le colonne sonore di quasi tutti i suoi film proprio per capacità di Rota di sintonizzare la musica secondo le frequenze del sogno: un connubio capace non solo di esprimere ma di evocare, per mezzo di una trama sonora senza sbavature, intensa e al tempo stesso ironica, densa e leggera. In coerenza con questa indole, Rota si permise anche qualche incursione nel mondo della televisione, come ad esempio le musiche per lo sceneggiato “Il giornalino di Gian Burrasca” per cui compose su testo di Lina Wertmüller la canzone “Viva la pappa col pomodoro”, cantata da Rita Pavone.
Nino Rota era un abile artigiano capace di cucire sartorialmente le sue note sul tessuto di storie tra loro anche molto diverse; a dimostrazione del suo carattere eclettico, dalle sue stesse mani sono uscite la struggente malinconia del tema dell’angelo ne “La strada”, la dolcezza languida di quello di “Amarcord”, le marcette e i variegati paesaggi sonori di “8½”, le sottolineature etniche della musica del “Satyricon”, il tema dai risvolti quasi diabolici del “Casanova”, sino alle arie metropolitane e oscure che hanno accompagnato “Il padrino” e “Il padrino – Parte II”, quest’ultimo il film per cui Rota è stato premiato con il Premio Oscar.
La carriera di Nino Rota
Parlare di Nino Rota significa inquadrare la personalità dell’uomo e dell’artista a contatto con un contesto storico e sociale che lo ha visto attivo e partecipe protagonista per oltre quarant’anni: come docente di Conservatorio, come Direttore d’Orchestra, come concertista e come compositore, come animatore artistico di prestigiose iniziative musicali.
Significa, in altri termini, parlare di quarant’anni di vita musicale, dalla fine degli anni Trenta alla fine dei Settanta, non solo in Italia ma in tutto il Mondo, tanto che certi suoi temi come quelli di “Amarcord” li si sente fischiettare ovunque, da New York a Tokyo, perché sono brani che fanno parte della memoria collettiva: che hanno saputo incontrare non solo le diverse età, ma anche le molteplici culture.
Considerato il “principe della musica per film”, nella sua formidabile carriera compose oltre 150 colonne sonore, cui vanno aggiunte ben undici opere liriche oltre a sinfonie e concerti. E’ stato un compositore completo e si è cimentato da artista in tutti i campi dell’espressione musicale, senza mai porsi pregiudiziali di sorta, con l’unico scopo di comunicare al pubblico dei concerti, del teatro lirico, della sale cinematografiche il proprio straordinario, sincero, amore per la musica. Non credo a differenze di ceti e di livelli nella musica, ebbe a dire: il termine “musica leggera” si riferisce solo alla leggerezza di chi l’ascolta, non di chi l’ha scritta.
Come spesso accade con ogni tipo di narrazione, tale lievità era il risultato di una estrema disciplina: fedele al primato della melodia e saldamente ancorata alla sintassi del linguaggio tonale, la musica del compositore nato milanese ma pugliese d’adozione si basa infatti sui parametri formali tipici della tradizione neoclassica novecentesca che Rota però è riuscito a coniugare in maniera avanguardista e moderna al cinema. Aveva con la musica un rapporto così confidenziale e diretto che rendeva qualsiasi spartito o partitura di facile esecuzione; da qui le leggende sulle sue scritture in qualsiasi luogo, l’epifania di un brano per Fellini nato in tempi brevissimi e soprattutto quella duttilità fatta di tensioni e di interiorità che lo ha reso non solo celebre, ma unico.
La sua era una scrittura intrisa di storia e di narrazione, capace di restituire immediata intensità anche solo con poche note di pianoforte. L’hanno definito l’uomo che trasformava l’inchiostro in oro: perché non solo Rota ha fatto la fortuna delle tasche di molti produttori, ma anche in quanto sul piano artistico ha inventato colonne sonore che hanno reso le immagini ancor più memorabili, i sentimenti ancor più genuini, i dolori ancor più farseschi e, quindi, follemente inquietanti. Al rimprovero che molti anni fa Mario Soldati gli fece sul fatto che avesse abbandonato il Nord per il Sud, Rota rispose che lui amava la luce. La luce. Forse per questo ha saputo mettere così bene sullo spartito sia essa che il suo opposto: sia la vita, coi suoi colori, che il suo contrario. Con le sue parole: “Quando creo al pianoforte, faccio tutto il possibile per regalare a tutti un momento di felicità. Ma a volte questo risulta davvero difficile”.