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“La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattromila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso”. Così scriveva Fabrizio De André, che dal 1975 aveva fatto dell’isola la sua patria adottiva.

Non si sa se 220 anni prima la pensasse allo stesso modo il capitano Vittorio Amedeo Costa, conte di Carrù e Trinità e viceré di Sardegna dalla fine del maggio 1755. Vittorio Amedeo discendeva da una stirpe nobile di condottieri militari al servizio dei Savoia: prima di partire per Cagliari si era distinto per parecchie campagne militari tra cui la riconquista di Asti e la liberazione di Alessandria.

Pur essendo ormai passati 30 anni dalla conquista da parte dei Savoia, la Sardegna non era esattamente un paradiso, tanto che nel ruolo di viceré si succedevano i più alti gradi dell’esercito: di fatto l’isola era ancora militarizzata e la popolazione locale, abituata ad una società di tipo feudale tormentata da attacchi pirateschi, guardava ancora con sospetto alla presenza Sabauda. A Vittorio Amedeo fu subito affidata dal governo la questione dell’incremento della popolazione, da affrontare rapidamente attraverso la creazione di colonie come quella di Carloforte. Il conte si mostrò scettico riguardo al successo delle iniziative di colonizzazione e suggerì invece misure innovative che oggi definiremmo più sostenibili, proponendo di incentivare i nuovi matrimoni con una dote destinata alle giovani coppie. La sua proposta non venne accolta nell’immediato, fu messa in pratica solo alla fine del XVIII secolo, dopo la sua morte. La storia tuttavia ci dice che il problema del basso incremento della popolazione sarda dipendeva soprattutto dall’altissima mortalità infantile, per cui quasi un bimbo su due non sopravviveva, e dalla diffusione della malaria.

Alla fine del suo mandato, il conte rientrò a Torino e, forse ispirato dallo splendido palazzo Regio di Cagliari col suo imponente scalone d’onore, diede incarico al giovane architetto Renato Birago di Borgaro, allievo di Filippo Juvarra e futuro architetto di corte, di progettare un nuovo palazzo nel quartiere di Borgo Nuovo. Il Palazzo Costa di Carrù della Trinità – affacciato su via San Francesco da Paola e adiacente all’isolato del Crocifisso, di proprietà delle monache e che oggi conosciamo come piazzale Valdo Fusi – si distinse subito per le sue dimensioni importanti e rimane tuttora uno dei complessi nobiliari più ampi della città. Varcato il portale dell’ingresso principale, sulla sinistra si erge il monumentale scalone in marmo, decorato con trompe-l’oeil di gusto classicistico e sovrastato da uno splendido soffitto a padiglione, decorato da stucchi a trama geometrica. Al piano nobile si trova la meravigliosa sala d’onore e le camere padronali, pavimentate con parquet storici e adornate da ricche decorazioni sulle volte, nelle cornici di imposta e sugli sfondati di porte e finestre, di sobrio gusto neoclassico alternato alla fantasia del rococò. Sbirciando dal portone d’ingresso, in fondo alla corte rettangolare, campeggia una scultura che rappresenta Ercole in lotta con il leone Nemeo.

Durante i quasi 100 bombardamenti alleati che colpirono la città di Torino durante la seconda guerra mondiale, neppure il palazzo Costa di Carrù fu risparmiato: gran parte delle volte delle sale del palazzo vennero danneggiati e presumibilmente le bombe spazzarono via molti fregi e imponenti camini dei quali si è trovata traccia nella ricostruzione delle pavimentazioni.

Chi oggi si trovi a passare per le strade del Borgo Nuovo, l’area del centro di Torino delimitata da via Roma, corso Vittorio Emanuele II, via Po e corso Cairoli, potrebbe chiedersi come mai venga definito “nuovo” un quartiere così ricco di edifici storici, dato che, con tutta probabilità, non era già più “nuovo” quando fu inaugurato il palazzo, nel 1763. Il nome Borgo Nuovo risale al 1620 quando Carlo Emanuele I di Savoia ampliò per la prima volta la città verso sud costruendo appunto la “via Nuova” – poi ribattezzata via Roma dopo l’Unità d’Italia e successivamente ricostruita completamente durante il ventennio fascista ad opera dell’architetto di regime Marcello Piacentini.

In occasione dei bombardamenti del 1943 sull’isolato del Crocefisso, il secentesco Palazzo Morozzo della Rocca, sede della Camera di Commercio dal 1871, viene demolito. L’isolato di San Sebastiano, con il Palazzo Costa Carrù della Trinità e il settecentesco Collegio delle Province, e quello di San Vittore, con le case degli ultimi decenni dell’Ottocento e l’Ospedale di San Giovanni Battista (oggi Museo di Scienze Naturali), progettato nel 1680 da Castellamonte, subirono invece danni più contenuti e furono ricostruiti.

Negli anni successivi alla sua costruzione il Palazzo Costa di Carrù della Trinità si espanse, annettendo il cosiddetto complesso “delle Cascine”, frutto di acquisti di case da reddito che si affacciavano sulle attuali vie Giolitti e Accademia Albertina. Col tempo questa parte del complesso diventerà un vero e proprio polo di assistenza sociale di natura filantropica: nel 1837 nella proprietà delle Cascine era attivo il Ricovero delle figlie della Misericordia per l’assistenza alle giovani in difficoltà, fondato da Luigia Alfieri in connessione con le Dame della Carità di San Vincenzo. Negli anni successivi, ad opera della contessa Costanza Luserna di Rorà, venne fondato il “Ritiro Carrù”, poi confluito in un unico istituto detto “Ritiro Alfieri”, che funzionava come educandato per fanciulle cattoliche di non agiata condizione sociale. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale l’edificio ospitò altre istituzioni, come l’Educatorio della Provvidenza e un ospedale del Sovrano Militare Ordine di Malta provvisto di ambulatorio medico chirurgico e pediatrico.

Oggi il piano nobile di Palazzo Costa di Carrù della Trinità ospita Ultraspazio Club, uno spazio di co-working ed eventi le cui sale, inclusa la splendida sala d’onore, sono dotate di sensori e di una piattaforma digitale per calcolare e monitorare l’impatto ambientale e sociale della comunità nell’utilizzo degli ambienti del Palazzo. I sensori attraverso i dati rilevati generano la consapevolezza che è alla base di ogni buon progetto di sostenibilità: chissà cosa ne penserebbe il vecchio conte Vittorio Amedeo che fece costruire questo splendido palazzo e già nella seconda metà del ‘700 perseguiva scelte più sostenibili, ma volete mettere il privilegio di poter lavorare immersi nella bellezza?