Gertrude e Maria. In Italia qualsiasi discorso sulle religiose in letteratura ruota intorno a questa polarità, che oscilla tra Manzoni e Verga, tra la potente figura della monaca di Monza e la desolata protagonista di “Storia di una capinera”. Entrambe monache forzate, obbligate ad un destino incarnato nella Legge del Maggiorasco che prevedeva, fin dal Medioevo, che il patrimonio alla morte del padre non si dovesse dividere fra i vari figli ma dovesse passare tutto in eredità al primogenito: un costume che ha spinto per secoli le famiglie di rango elevato a ricorrere alla monacazione forzata delle proprie figlie per salvaguardare i loro patrimoni ed evitare le elevate spese dotali per i matrimoni.
Voci di donne
Gertrude e Maria sono punti cardinali certo, ma in realtà se allarghiamo lo sguardo oltre questa diade prettamente italica, c’è un insieme di voci che idealmente potremmo riunire all’interno di un’avanguardia decisa a conquistare libertà pur nei pochi spazi di emancipazione permessi dalla società; donne che hanno esperito sulla loro carne l’alienazione di una vita di clausura imposta con la forza, ma che pretesero il diritto a un’alternativa conforme alle loro aspirazioni. Un coraggio letterario e non solo che inizia nell’epoca moderna ben due secoli prima di Manzoni con “Le lettere di una monaca portoghese”, di autore anonimo, pubblicate la prima volta a Parigi nel 1669, in cui vengono esplorate le implicazioni erotiche e sensuali delle sorelle prigioniere in convento. A questo filone se ne affianca uno con connotazioni politiche di stampo risorgimentale di cui è capostipite “I misteri del chiostro napoletano”, scritto nel 1864 da Enrichetta Caracciolo che, monacata giovanissima a tradimento nella chiesa di San Gregorio Armeno a Napoli, dopo esserci liberata dei voti diventa patriota devota a Giuseppe Garibaldi e sostenitrice dei diritti delle donne. Tale viaggio alla scoperta di un punto di vista più rotondo del personaggio monacale trova il suo bilanciamento intermedio, e probabilmente virtuoso, nella storia di Suzanne, “La Religieuse” raccontata da Denis Diderot nel 1796; un racconto che, se nei primi capitoli richiama la dolcezza candida della Capinera di Verga, nel suo procedere poi la rivela come donna di tutt’altra tempra, determinata a decidere per sé a qualunque costo.
I luoghi e la storia di Marianna
Tornando alla Monaca di Monza, il suo essere entrata nel linguaggio e nella cultura popolare non è solo da ricondurre alla centralità del romanzo di Manzoni nella letteratura italiana, ma anche alla natura piena, densa, sfaccettata, del personaggio; una figura che risulta mirabilmente incardinata nella sua biografia con alcuni luoghi simbolo non solo di Monza, ma anche di Milano: basti pensare che Marianna De Leyva, in quanto figlia di Virginia Marino, erede della casata, nasce a Palazzo Marino, oggi sede del Comune; che il ritiro di Santa Valeria, luogo dove Marianna venne rinchiusa dopo il processo, murata in una cella per circa 14 anni e dove rimase anche dopo aver ottenuto il perdono, era situato a pochi passi da Piazza Sant’Ambrogio, da sempre sede della curia meneghina e adiacente all’Università Cattolica; che il suo amante Gian Paolo Osio, condannato a morte e ricercato, fu ucciso nei sotterranei di quello che oggi è Palazzo Isimbardi, a pochi passi dal Duomo. Un itinerario che sicuramente alimenta la tradizione secondo cui Geltrude viene intesa come creatura lavica, solfurea, limitrofa ai luoghi della religione ma corrotta dal peccato, tanto che nell’opera manzoniana il suo destino si apre e si chiude intorno a una frase, la più nota: e la sventurata rispose. Ma è tutto qui?
Gertrude
In realtà negli occhi, nelle movenze, nelle parole asciutte e rare di Gertrude c’è molto di più: la non coincidenza fra fede e scelta, fra corpo e volontà, fra anima e ambizione. E, ancora, la dissidenza verso i luoghi di culto fatta di gesti che dicono a tutti: io sono questo. E senza questo non sono. Rispettate la mia volontà. Queste istanze assumono una natura ancor più intensa se andiamo nel dettaglio del diario umano ed emotivo di Gertrude; infatti, lei, più che con la forza, è costretta a prendere i voti attraverso una costante pressione psicologica: sin dal momento della sua nascita i suoi regali consistevano in piccoli santini, bambole vestite da suora e lo stesso linguaggio che si usava con lei era finalizzato ad abituarla a quello del monastero. La monacazione sembra dunque per Gertrude l’unica scelta possibile, perché è l’unica che la famiglia le permette di immaginare; ma, nonostante questo, lei mantiene viva la capacità e la possibilità di immaginare e provare altro: gli istinti vitali che le erano stati negati, l’amore, la disobbedienza al destino e alle regole scritte per lei da altri. Tutti uomini.
In ben pochi personaggi della letteratura italiana è possibile riscontrare un susseguirsi drammatico a tal punto totalizzante, un vortice continuo e impetuoso di stati d’animo, risentimenti, atteggiamenti alimentati da paura e insieme da voglia di riscatto. A lei Manzoni dedica un’ampia attenzione, trattando la sua tragedia quasi come fosse una “storia nella storia” e permettendole di stare fuori dalla morale; a ben vedere, Gertrude è l’unico personaggio che va contro l’ideale della Provvidenza che permea “I promessi sposi”: nella sua vita, nella sua storia passata e futura, non si riesce a scorgere infatti alcun disegno provvidenziale, alcun destino roseo o felice guidato dall’alto.
È in questo che sta la sua modernità e attualità, una vocazione laica che PACTA.dei Teatri ha inteso riportare in luce nello spettacolo “LA MONACA DI MONZA alias SUOR VIRGINIA MARIA alias MARIANNA DE LEYVA”. Attraverso la drammaturgia e la regia di Annig Raimondi, nello spettacolo una grata immensa diventa metafora dell’interno di un convento: barriera simbolica e di genere, ostacolo non solo ad una storia d’amore ma anche ad una ipotesi di libertà.
Gertrude di nobili natali, figlia del principe don Martino di Leyva, discendente di una grande famiglia spagnola temuta e rispettata. Gertrude emblema di un’opposizione ai compromessi di lignaggio e alla violenza delle convenzioni; spirito moderno in cerca d’identità e autodeterminazione, portavoce di una contestazione verso i poteri civili e politici; segno di un’attitudine mai doma, e dunque feroce contro un regime del terrore e della privazione, della clausura obbligata e della vita cancellata. Una ribellione che, alla fine, è semplicemente manifestazione dell’imprescindibile natura umana e per questo permea ogni espressione del volto di Geltrude: il continuo “raggrinzirsi” della fronte, il rapido muoversi dei neri sopraccigli, e poi il lampo negli occhi, neri anch’essi, talora superbi, talora arcigni.
Occhi che non mentono, che guardano in faccia il mondo senza pietà, a muso duro. Occhi che parlano di donne che si ritrovano loro malgrado a essere suore e hanno comportamenti assolutamente umani, ritenuti sbagliati solo dall’imposta clausura. Occhi che molti uomini, non solo nel Seicento ma anche oggi, avrebbero paura anche solo di incontrare, figurarsi di interrogare.
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