Cosa è cambiato a Milano negli ultimi 60 anni? Sembra che sia cambiato tutto, ma tutto questo nuovo attorno d’improvviso sembra irrilevante se si legge Luciano Bianciardi. D’altra parte, nel 2020 la stessa amministrazione comunale ne celebrava l’attitudine gattopardesca nel video “Milano è sempre quella, perché non è mai la stessa”.
Bianciardi parla di Milano e descrive il miracolo italiano come “una grossa fregatura” – era il 1962 e aveva già capito tutto quello che sarebbe successo. Siamo andati a cercare i luoghi dove lo scrittore ha vissuto e che ha diffusamente raccontato nel suo romanzo “La vita agra”.
La Braida del Guercio e gli Umiliati
Il romanzo comincia dalla Braida del Guercio, oggi ignota ai molteplici estimatori della movida di Brera: “uno scampolo di provincia nel cuore della città”, che negli anni ’50 del secolo scorso era diventato ‘the place to be’ per gli artisti che approdavano a Milano in cerca di fortuna, ma che ancora conservava memoria della storia di 1000 anni prima, quando un tal Adalgiso detto “il Guercio” lasciò in eredità un terreno e le sue case all’ordine degli Umiliati. A Brera gli Umiliati rimasero in un edificio a fianco della chiesa di Santa Maria sino al 1571, anno in cui papa Pio V, su richiesta del cardinale Carlo Borromeo, ne abolì la congregazione e affidò il convento con i terreni adiacenti ai Gesuiti, con l’impegno di creare un collegio. È verosimile che la forte enfasi che gli Umiliati ponevano sulla frugalità e semplicità di vita e la condanna dei lussi e della rilassatezza dei costumi li avesse messi in conflitto con le gerarchie ecclesiastiche, a cui le loro tesi suonavano pericolosamente vicine a quelle dei protestanti. Nella seconda metà del 1600, il cardinale Federico Borromeo incaricò l’architetto Francesco Richini di realizzare finalmente il collegio di Brera dei Padri Gesuiti, che oggi ospita l’Accademia di Brera.
Brera e la lotta di classe
Dopo un breve soggiorno in un albergaccio in Porta Venezia, forse l’odierno Hotel Baviera di via Panfilo Castaldi, il grossetano Bianciardi approda al numero 8 di via Solferino, dove divide una camera ammobiliata con la sua compagna Maria Jatosti. Frequenta il bar Brera, va a mangiare (spesso a credito) nella latteria delle sorelle Pirovini in via Fiori Chiari e soprattutto passa il suo tempo insieme ad altri artisti allo storico bar tabacchi Jamaica, il bar delle Antille della “Vita Agra” – dove nel 1962 fu meditato il rapimento del viceconsole spagnolo a Milano. Oggi il vicolo, un tempo senza nome, è stato dedicato all’artista Piero Manzoni – famoso per la sua merda d’artista, che lo frequentava assiduamente negli anni ’50-60. Sempre a Brera, al 10 di via Palermo, c’era lo sferisterio della Pelota Basca Jai Alai, inaugurata nel 1947 e chiusa nel 1997, i cui atleti erano coinquilini del protagonista del romanzo.
A poche centinaia di metri, in via Fatebenefratelli 15, si trovava la sede delle Edizioni Feltrinelli, per cui Bianciardi lavorò un anno soltanto e cui non risparmiò critiche. Si dice che sia inventato, ma è comunque divertente e indicativo dello stato d’animo dell’autore, l’aneddoto secondo cui Bianciardi avrebbe osato abbandonare una riunione col “giaguaro” Giangiacomo Feltrinelli e che, andandosene avesse indossato il cappotto di cammello dell’editore al posto del suo, per poi dichiarare che era un regalo di Feltrinelli a supporto della lotta di classe.
Il torracchione e il bottegone
Ne “La vita agra” sono molti i rimandi alla vita reale dell’autore, come è reale la Milano che fa da sfondo. Il “torracchione di vetro e di alluminio” che l’anarchico Marcello vorrebbe far saltare in aria nel romanzo, altro non è che l’ex palazzo della Montecatini progettato da Giò Ponti, oggi sede del consolato USA e di alcune radio, in Largo Donegani numero 2. Nel racconto il protagonista, sconvolto per l’incidente del 4 maggio 1954 alla miniera di lignite di Ribolla di proprietà della Montecatini, in cui morirono 43 lavoratori vittime di un’esplosone da grisù, promette ad uno dei sopravvissuti che avrebbe fatto un attentato alla sede centrale.
Dopo un passaggio in una pensione di piazza del Duomo, davanti alla cui finestra si accendeva prosaicamente la scritta Cinzano, Bianciardi si trasferisce in un appartamento di proprietà dell’amico Carlo Ripa di Meana, in via Domenichino al numero 2.
Proprio all’angolo tra via Domenichino e viale Monterosa, Bianciardi visita uno dei primi supermercati in Italia, l’Esselunga – ovvero “il bottegone: una stanza enorme senza finestre, con le luci giallastre sempre accese a illuminare le cataste di scatole colorate. Dal soffitto cola una musica calcolata per l’effetto ipnotico”. Anche il regista Carlo Lizzani, nel bel film del 1964 tratto dal romanzo, con protagonisti Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, non si fa sfuggire l’opportunità di girare alcune scene proprio al supermercato, tuttora simbolo della Milano che consuma. Lizzani cambia il finale della storia trasformando il protagonista in un pubblicitario che scrive slogan per la pubblicità di prodotti delle imprese che un tempo voleva distruggere, una rivisitazione che, se possibile, enfatizza ulteriormente il messaggio di denuncia, ancora attualissimo, che Bianciardi ci ha voluto lasciare.
Dopo aver vissuto in prima persona le contraddizioni di una città che, dietro una patina di progresso, aumenta sempre di più le diseguaglianze, costringendo i più poveri ad arrancare per riuscire ad avere una vita dignitosa, Bianciardi scrive: “i Milanesi, credimi, sono coglioni come poca gente al mondo. La gente qui è allineata, coperta e bacchettata dal capitale nordico e cammina sulla rotaia, inquadrata e rigida. Non se ne lamentano, anzi, credono di essere contenti”.
Da quei tempi torracchioni e bottegoni si sono moltiplicati a dismisura, a parte questo tutto sembra identico a chi legge Bianciardi oggi.
Luciano Bianciardi è morto nel 1971 di cirrosi epatica, logorato da alcol e depressione, all’Ospedale San Carlo di Milano.